La approvazione definitiva dell’articolo 4 del decreto sulla spending review (Dl 95/2012) non risolve i molti problemi che pone la sua concreta applicazione. Uno per tutti è quello relativo al destino delle società miste che hanno i requisiti di cui al comma 1 dello stesso articolo (si veda anche l’articolo a fianco).
La possibilità di costituire aziende con soggetti privati era già prevista dal Decreto Bersani ma l’evoluzione legislativa aveva di recente premiato e rafforzato questo modello, equiparandone le potenzialità a quelle delle altre società di mercato e quindi autorizzando queste realtà ad uscire dall’ambito territoriale di origine e a partecipare alle gare fuori dal proprio territorio.
Si può condividere o no questa scelta, ma non si può ignorare lo stato dell’arte e l’esistenza dei diritti e delle aspettative di quei privati che si trovano oggi a operare in società miste legittimamente costituite.
Ma il comma 1 dell’articolo 4 parla, purtroppo, di «società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni», accomunando così i destini delle società strumentali miste a quelle interamente pubbliche (a condizione che rientrino nella categoria individuata nel comma 1 stesso, e quindi, paradossalmente, solo quelle pure, perché una società strumentale che invece abbia un fatturato proveniente da fonti terze non ricade negli stretti tempi imposti da questa norma).
Cosa succede dunque a una società strumentale mista? Le alternative sono due. Alla lettera a) si richiede lo scioglimento della società entro il 31 dicembre 2013; alla b), invece, la vendita delle partecipazioni entro il 30 giugno del 2013.
Partiamo dalla prima ipotesi: davvero un ente locale può pensare, solo in virtù di questa norma, di mettere in liquidazione una società nella quale è impegnato, magari fino al 2020, con un soggetto che ha fatto investimenti e che si aspetta dei ritorni? Qualcuno è disposto a scommettere che lo scioglimento non comporti un contenzioso che veda il comune (giustamente) soccombente? Difficile immaginarsi che una scelta del genere rispetti il principio costituzionale del buon andamento.
Andiamo invece alla seconda strada. Ci pare discutibile che rientri nella lealtà contrattuale il mettere la quota pubblica sul mercato perché il patto di collaborazione il partner tecnico lo ha stretto con il comune e non si aspetta certo di vedersi abbandonare. Inoltre se l’azienda ha un contratto fino al 2020 perché mai il privato dovrebbe accettare il contestuale affidamento per cinque anni previsto dal comma 1?
Poniamo invece che chi acquista il 60% non sia il partner attuale, ma un terzo. Davvero si troverà qualcuno che accetti di avere la maggioranza delle quote ma di subire che i ruoli di amministratore delegato o direttore generale siano affidati da un altro imprenditore (quello vecchio)? Poniamo che l’affidamento preesistente scada invece nel 2015, cosa accadrà a quella data? Dovremo liquidare il primo socio privato? E di chi sarà questo onere? Del comune o del nuovo (improbabile) azionista? Facile prevedere che si arriverà alla scadenza del 2013 con la sola (im)possibilità di mettere in liquidazione la società, o di doverla cedere per un tozzo di pane al vecchio socio.
Diciamoci la verità: questa norma ha semplicemente ignorato la questione. Ed ora è il caso di intervenire, precisando che l’articolo 4 si applica solo a società interamente pubbliche.
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