Occorre premettere che la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge comporta la disapplicazione della stessa, con conseguente caducazione dei soli effetti non definitivi e, nei rapporti ancora in corso di svolgimento, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale, restando quindi fermi quegli effetti anteriori che, pur essendo riconducibili allo stesso rapporto non ancora esaurito, abbiano definitivamente conseguito, in tutto o in parte, la loro funzione costitutiva, estintiva, modificativa o traslativa di situazioni giuridicamente rilevanti
In sostanza l’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, avendo effetto retroattivo e inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza.
Ciò premesso, con specifico riferimento al caso deciso con la sentenza n. 209/2022, occorre distinguere le situazioni “esaurite” o “definitive” da quelle ancora pendenti.
Tra le situazioni divenute definitive rientrano anche gli avvisi di accertamento emessi e notificati ai contribuenti, siano essi pagati o non pagati.
Relativamente agli avvisi pagati il contribuente ha peraltro prestato acquiescenza, per cui l’obbligazione tributaria si è estinta ed è divenuta irretrattabile. Si tratta di rapporti esauriti in relazione ai quali è intervenuta una preclusione che li ha resi irretrattabili e quindi insensibili anche ad eventuali pronunce di illegittimità costituzionale.
Altrettanto deve affermarsi in ordine agli avvisi di accertamenti che non sono stati pagati dai contribuenti. Al riguardo la Cassazione ha avuto modo di chiarire che la dichiarazione di incostituzionalità “non può incidere su un rapporto d’imposta ormai esaurito, atteso che il contribuente, raggiunto dall’avviso, per non rendere incontestabile il rapporto tributario per intervenuta definizione dell’imponibile, avrebbe dovuto impugnare tempestivamente l’accertamento notificatogli” (cfr. Cass. n. 969 del 20 gennaio 2016).
Pertanto gli avvisi di accertamento divenuti definitivi per mancata impugnazione nel termine di 60 giorni dalla loro notifica (ancorché non pagati), sono divenuti definitivi e non possono essere annullati.
Va infine esaminata la possibilità di procedere all’annullamento degli avvisi in autotutela (o al rimborso di quanto pagato), eventualmente su richiesta del contribuente.
Al riguardo si evidenzia preliminarmente che non sussiste alcun obbligo di rispondere all’istanza in autotutela presentata dal contribuente, essendo espressione di ampia discrezionalità (cfr. Cassazione 4/6/2014 n. 12496; Cons. Stato 3/10/2012 n. 5199; Cons. Stato 6/7/2010 n. 4308).
La questione è stata peraltro definitivamente chiarita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 181 del 13/7/2017, evidenziando che il contribuente che presenta ricorso in autotutela non ha diritto a ottenere una risposta da parte della P.A., affermando che non viola alcun principio costituzionale il fatto che l’amministrazione finanziaria possa ignorare l’istanza di autotutela del contribuente sulla base di valutazioni «largamente discrezionali». Contro l’eventuale silenzio, quindi, non ci sono mezzi di tutela e non è possibile fare opposizione. Al contrario, in assenza di risposta, l’istanza in autotutela si considera rigettata (cosiddetta regola del «silenzio-rigetto» o «silenzio rifiuto»).
In sostanza non esiste un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela e, mancando tale dovere, il silenzio su di essa non equivale ad inadempimento, né, d’altro canto, il silenzio stesso può essere considerato un diniego, in assenza di una norma specifica che così lo qualifichi giuridicamente, con la conseguenza che il silenzio dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela non è contestabile davanti ad alcun giudice.
La Cassazione ha peraltro avuto modo di chiarire che l’autotutela tributaria, oltre ad essere discrezionale e non obbligatoria, presuppone comunque un rilevante interesse pubblico all’annullamento, non essendo sufficiente l’interesse al mero ripristino della legalità violata (cfr. Cass. n. 10272 del 31 marzo 2022). Relativamente al caso specifico andrebbe in particolare considerato l’interesse pubblico dell’ente alla conservazione degli effetti giuridici, attesa l’incidenza che l’annullamento di atti divenuti definitivi potrebbe avere sulle somme già previste in bilancio, con conseguente responsabilità per danno erariale.
In conclusione, gli effetti retroattivi della sentenza della Corte Costituzionale n. 209/2022 possono riguardare solo i contenziosi pendenti, i pagamenti spontanei effettuati dai contribuenti e gli accertamenti non definitivi (cioè quelli per i quali non è scaduto il termine per la presentazione del ricorso, ovvero per i quali è pendente il giudizio avanti alle Corti di giustizia tributaria o alla Corte di cassazione).
Invece gli avvisi di accertamento notificati e divenuti definitivi per mancata impugnazione dei termini (siano essi pagati o non pagati) non possono essere oggetto di rimborso o di annullamento, trattandosi di rapporti ormai esauriti.
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