Il perimetro dei poteri comunali in materia di Imu è apparentemente molto ampio. Nella disciplina di riferimento, rappresentata sia dagli articoli 8 e 9, Dlgs 23/2011, sia dall’articolo 13, Dl 201/2011 (salva-Italia), sono infatti richiamate la facoltà previste negli articoli 52 e 59, Dlgs 446/97. È però evidente che il limite principale a questi poteri deliberativi è rappresentato dalla quota di imposta erariale, pari al 3,8 per mille dell’imponibile riferito a tutti gli immobili, con le sole eccezioni dell’abitazione principale e dei fabbricati rurali strumentali. I Comuni infatti non possono disporre di un tributo statale, ma solo dell’imposta di propria pertinenza. In concreto, questo significa, ad esempio, che non potranno comunque adottare aliquote Imu inferiori al 3,8 per mille, come sembra indirettamente desumibile anche dall’articolo 56 del decreto legge sulle liberalizzazioni (agevolazioni per gli immobili delle imprese costruttrici). Ugualmente, eventuali agevolazioni deliberate in termini di riduzioni di aliquote ovvero di detrazioni incideranno solo sull’imposta comunale e mai su quella statale. Le disposizioni dell’Imu sperimentale consentono di ridurre le aliquote fino al 4 per mille per gli immobili locati, per i fabbricati appartenenti alle imprese e per gli immobili dei soggetti Ires. Si tratta delle tre categorie che subiscono la penalizzazione derivante dall’aggravio dell’aliquota del tributo patrimoniale unitamente alla duplicazione con le imposte sui redditi. L’articolo 8, Dlgs 23/2011, peraltro, consente di differenziare tali riduzioni di aliquote per categorie di immobili. Si tratta di disposizione che appare pienamente compatibile con l’Imu sperimentale. Ne deriva che, in linea di principio, potranno adottarsi aliquote di favore ad esempio per gli immobili delle imprese artigiane oppure per quelli delle imprese neo costituite ovvero ancora per gli stabilimenti industriali. Si ritiene inoltre senz’altro ammissibile una specifica aliquota, anch’essa di vantaggio, per i fabbricati locati a canone concordato. In linea generale, si è dell’avviso che siano legittime le differenziazioni non fondate sulla mera appartenenza ad una categoria catastale. Si pensi ancora, ad esempio, alle locazioni di locali commerciali effettuate nel centro storico. Appare invece rischioso differenziare il prelievo in funzione della sola tipologia catastale (ad esempio, un’aliquota specifica per gli immobili A10). In questo caso, infatti, potrebbe essere eccepito che la differenziazione è già insita nella rendita catastale attribuita all’immobile e non può essere effettuata anche a livello di aliquote. Si ritiene inoltre che nulla impedisca di adottare aliquote agevolate per gli immobili concessi in comodato d’uso a parenti, laddove si consideri questa fattispecie meritevole di promozione. Non si tratterebbe ovviamente di una assimilazione all’abitazione principale, poiché questa possibilità è stata soppressa dal Dl 201/2011, ma per l’appunto di una aliquota di vantaggio. Al riguardo, andrebbe tuttavia ricordato che per tali tipologie l’Imu comporterà dal 2012 l’assorbimento dell’Irpef. A monte di qualsiasi valutazione in ordine all’opportunità delle variazioni di aliquote occorrerebbe peraltro tenere nella debita considerazione le esigenze di semplificazione dei contribuenti. Se infatti la quota di imposta erariale dovesse, come per vero sembra inevitabile, costringere i soggetti passivi ad un doppio calcolo della nuova imposta patrimoniale, è evidente che la moltiplicazione delle aliquote renderebbe ancora più complessi i conteggi.
Imu, i vincoli alle manovre
Il nuovo prelievo locale. Il 3,8 per mille dovuto all’Erario limita le decisioni dei sindaci
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