Ne deriva che i municipi possono senz’altro giungere al l’esenzione dell’abitazione principale anche in vigenza de ll’Imu, a condizione che siano in grado di sopperire alla perdita di gettito e non deliberino aliquote maggiori del 7,6 per mille sui fabbricati tenuti a disposizione. Nulla vieta, ovviamente, di manovrare l’aliquota al rialzo con riferimento alla generalità degli immobili diversi da questi (ad esempio, le aree fabbricabili). In teoria, potrebbero anche adottarsi misure elevate di prelievo con riferimento, ad esempio, agli immobili locati e ai beni d’impresa. Una simile politica tuttavia risulterebbe irragionevole, in quanto contraria ai fondamentali del nuovo tributo. L’effetto finale sarebbe infatti quello di gravare sui soggetti già penalizzati in partenza dall’imposta e di alleviare il carico nei riguardi dei contribuenti per i quali l’Imu assorbe l’Irpef sui redditi fondiari. In buona sostanza, l’esenzione dell’abitazione principale, pur tecnicamente possibile, richiede una attenta valutazione degli effetti.
Una precisazione interessante è contenuta nella bozza di circolare delle Finanze, quando si afferma che il divieto di manovrare l’aliquota per gli immobili a disposizione opera solo in caso di totale esenzione dell’abitazione principale. Nulla vieta ai Comuni di elevare la detrazione per tutti, senza però arrivare all’esonero, recuperando parte delle risorse mancanti attraverso l’adozione dell’aliquota massima del 10,6 per mille nei riguardi dei fabbricati sfitti.
A maggior ragione appare plausibile l’alternativa, pure presa in considerazione dalle Finanze, consistente nella elevazione della detrazione solo per determinate categorie di soggetti, in condizioni non agiate. L’ente potrebbe quindi decidere di attribuire uno sconto d’imposta maggiore solo ai contribuenti che rispettino specifici requisiti reddituali e/o patrimoniali, precisati in delibera.
L’interpretazione delle Finanze sugli ambiti deliberativi degli enti locali in materia di Imu appare per certi versi contraddittoria perchè da un lato si assume una libertà molto ampia, dall’altro si individuano limiti che potrebbero risultare troppo rigorosi.
La bozza di circolare afferma infatti che i Comuni possono differenziare le aliquote d’imposta, anche per categorie catastali e all’interno della medesima fattispecie (ad esempio nell’ambito dell’abitazione principale). A tale riguardo, va tuttavia ricordato il rischio di legittimità insito nel differenziare ulteriormente ciò che è già rappresentato nelle rendite catastali attribuite dagli uffici del Territorio. Non va poi sottovalutato l’impatto pratico che un’eccessiva diversificazione potrebbe avere sugli adempimenti dei contribuenti. Questi ultimi, infatti, quando saranno alle prese con il calcolo della quota di imposta erariale, sempre pari al 3,8 per mille dell’imponibile, in sede di saldo dovranno effettuare doppi conteggi per ciascuna aliquota differenziata. Nel contempo, però, le Finanze ritengono che l’aliquota minima non possa mai essere inferiore al 4,6 per mille, salvi i casi espressamente previsti dalla legge. Anche le agevolazioni potranno prendere forma solo in termini di aliquote ridotte e sempre con il limite del 4,6 per mille. In tale ottica, quindi, sembra preclusa la possibilità di riconoscere ad esempio detrazioni d’imposta per fattispecie diverse dall’abitazione principale.
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